Ossatura e paramento. Il caso della «Piccionaia» e del «Cardo» di Rino Tami
Nicola Navone
Dieser Artikel beruht auf einem Vortrag, der beim Symposium «Baukulturen der Boomjahre» am 15.06.2023 an der FHNW in Muttenz gehalten wurde. Alle Beiträge finden Sie im Online-Tagungsband.
Nel processo di rinnovamento dell’architettura ticinese, che ha luogo dagli anni Cinquanta, un ruolo rilevante spetta all’ossatura in cemento armato abbinata a un paramento di mattoni faccia a vista. Principale interprete di questo linguaggio, presto adottato dai colleghi della sua generazione e di quella immediatamente successiva, è Rino Tami, che lo applica fino dagli anni Quaranta, insieme al fratello Carlo, in edifici industriali come lo stabilimento biochimico farmaceutico La Fleur a Lugano (1946-1950), il deposito Usego a Bironico (1950-1952) o l’ampliamento della fabbrica Frieden a Balerna (1952-1953), e nella casa ad appartamenti Fischer Marcionelli («Casa Solatia»), sulla collina che domina il centro storico di Lugano (1949-1951).[1]
Tuttavia, l’opera di Tami che segna un cambiamento di paradigma nella declinazione di questo tema costruttivo e formale è il complesso di edifici formato dalla «Piccionaia» (con la sala del cinema «Corso») e dal «Cardo», progettato a partire dal 1952 sul prolungamento di via Pioda. E questo non tanto per il passaggio dal mattone silico-calcare, utilizzato nelle opere menzionate in precedenza, al mattone di cotto (in particolare un mattone di argilla sabbiato, dalla superficie ruvida), che Tami riteneva più adatto al carattere lombardo del Cantone Ticino,[2] bensì, come cercherò di mostrare, per una più matura consapevolezza nel disegno dell’ossatura strutturale.
La ricostruzione della genesi progettuale, a cui deve aver offerto un contributo rilevante Peppo Brivio (che, pur avendo uno studio indipendente, collaborava allora con Tami),[3] documenta il passaggio, nell’edificio a destinazione mista «La Piccionaia», da prospetti non dissimili a quelli della fabbrica Frieden a una netta preminenza delle linee orizzontali, disegnate dalle testate dei solai muniti di velette che celano gli avvolgibili e scandite da brevi mensole che denunciano la posizione dei pilastri arretrati rispetto al filo della facciata, ravvivata dal movimento delle ombre che queste proiettano soprattutto durante le ore meridiane, quando i raggi solari sono tangenti al prospetto.[4] La trama strutturale viene palesata soltanto nella facciata di testa, che lambisce l’edificio quattrocentesco situato a meridione, e i cui pilastri vengono adornati da un doppio scuretto che sembra alludere alla scanalatura di un ordine classico (già utilizzato nella struttura del deposito Usego, a Bironico: singolo nel volume del magazzino, doppio nel corpo degli uffici). Le parti in cemento armato lasciate a vista sono trattate alla bocciarda, salvo gli spigoli che presentano il caratteristico «bindello»[5] liscio di derivazione perretiana.
Tami decide d’impostare la composizione sul contrasto: nel «Cardo», l’edificio situato sul lotto adiacente, dopo aver prolungato di due moduli il prospetto della «Piccionaia» ed aver inserito una campata di raccordo che accoglie l’ingresso, sceglie, nella parte originariamente destinata agli appartamenti, di evidenziare le linee verticali attraverso paraste aggettanti e tamponamenti di mattoni che, nei fronti verso la strada, vanno da solaio a solaio, disegnando verso l’affaccio principale finestre a tutta altezza munite di una ringhiera metallica, mentre nel prospetto laterale, su via Frasca, sono provviste di un parapetto ligneo. Il diverso trattamento dei prospetti distingue la parte destinata agli uffici da quella residenziale e potremmo supporre che in quest’ultimo ambito l’uso della finestra «alla francese» possa essere stato un ulteriore omaggio a Perret,[6] da cui è pure desunto il motivo (presente anche in Casa Solatia e in altre opere di Tami di questo periodo) della «claustra», qui utilizzata nelle scale del «Cardo» e nei parapetti della campata di raccordo. Nella facciata verso la piccola corte interna, Tami, pur ripetendo il motivo delle paraste che coprono l’intera altezza della facciata, dispone ad ogni piano una finestra orizzontale tripartita, seguita da una loggia, secondo una composizione non dissimile dal primo progetto per «la Piccionaia”.
Osservando i prospetti verso strada del «Cardo» sorge alla mente quello che Roberto Gargiani ha definito «la prima significativa ossatura in calcestruzzo amato tamponata in mattoni, e con materiali lasciati a vista, a imporsi [in Italia] nel panorama delle ricerche di quella figura e di quel materiale, insieme a quelle innalzate al QT8»[7], vale a dire l’edificio per gli uffici dell’INA costruito a Parma, tra il 1950 e il 1954, secondo il progetto di Franco Albini. Edificio rapidamente pubblicato e certo conosciuto da Tami, ma che qui evochiamo soprattutto per le notevoli differenze rispetto al «Cardo»: per il cambio di struttura dal piano terra ai piani superiori, per il modo radicalmente diverso di trattare l’angolo, per la rastremazione dei pilastri, che rispecchia le sollecitazioni a cui sono sottoposti. Questa scelta formale e strutturale, di cui costituiscono un precedente i Promontory Apartments realizzati a Chicago, tra il 1946 e il 1949, secondo il progetto di Mies van der Rohe, era stata interpretata da alcuni edifici realizzati al QT8 di Milano, come le case ad appartamenti in via Cimabue 4 e 16, senza però trovare applicazione nelle opere di Tami.
È noto come un tema portante dell’architettura di Tami, dei suoi rari scritti e del suo breve magistero al Politecnico federale di Zurigo, dal 1957 al 1961, sia l’istanza di «sincerità costruttiva», manifestata già nel 1936, nelle fasi iniziali della sua carriera, in un battagliero articolo intitolato I sepolcri imbiancati dell’architettura (nel quale avanzava la proposta di «proibire per un adeguato numero di anni l’uso dell’intonaco sulle facciate»[8] al fine di restaurare un uso corretto dei materiali e garantire un’esecuzione a regola d’arte); e poi ribadita in più occasioni, come nella prolusione tenuta al Politecnico di Zurigo, significativamente intitolata Della verità in architettura[9].
Tami, tuttavia, non mira a una rappresentazione ostensiva delle sollecitazioni a cui è soggetta la struttura, ad esempio adattando la sezione dei pilastri al carico che devono sopportare, ma declina la “sincerità costruttiva” in modo più sottile, in sintonia con quella mescolanza di sprezzatura ed eleganza che ne connotava la persona, mostrando e celando al tempo stesso, e dedicando grandissima cura all’equilibrio compositivo e al dettaglio costruttivo. Fondamentale, per Tami, è infatti la precisione del dettaglio e la qualità dell’esecuzione del cemento armato, che presuppone un adeguato livello tecnico delle imprese edili e di formazione delle maestranze (un tema spesso trascurato quando si analizza la qualità dell’architettura elvetica).
Tami svilupperà l’accostamento fra il cemento armato strutturale e i tamponamenti di mattoni di cotto in altri edifici urbani,[10] come il Palazzo delle Dogane e la Casa Boni e Regazzoni, sorti lungo via Pioda a breve distanza, spaziale e temporale, dal “Cardo” e dalla “Piccionaia”. Anche qui Tami gioca sulla dialettica tra una composizione fondata su linee orizzontali (per lo stabile amministrativo sede delle Dogane federali) e una impostata sulla verticale, che pure in questo caso corrisponde all’edificio a destinazione residenziale.
Potremmo seguire gli ulteriori sviluppi di questo linguaggio in edifici successivi, come le case ad appartamenti in via Dufour, a Lugano, o a Solduno, ma gli esempi convocati basteranno a chiarire in quale misura Tami abbia contribuito a diffondere questo linguaggio tra gli architetti della sua generazione – in particolare Alberto Camenzind e Augusto Jäggli, che firmeranno con Tami lo Studio della Radio della Svizzera italiana a Lugano-Besso (1951-1962) – o più giovani, come Tita Carloni, che più di altri lo ha utilizzato in numerose architetture per la città, oppure, benché in misura minore, Peppo Brivio. A questi maestri dell’architettura ticinese potremmo accostare una schiera di figure meno note, buoni architetti o anche solo dignitosi professionisti, che fecero proprio tale linguaggio declinandolo più o meno felicemente, come Luigi Nessi, che costruì per la famiglia Camozzi un edificio in via Pioda quasi contemporaneamente a Tami, basandosi sullo stesso sistema strutturale e compositivo; oppure nei due edifici realizzati dall’impresa di costruzioni Boni e Regazzoni lungo via Industria (oggi via Giacometti, una traversa di via Pioda). Esempi, fra gli altri, di un periodo dell’architettura ticinese a cui dovremmo continuare a rivolgere la nostra attenzione, anche per far sì che questi edifici, spesso soggetti a modifiche che ne alterano la sostanza, godano della dovuta considerazione e, ove necessario, tutela.
Note
[1] Su queste opere si rinvia a K. Frampton, R. Bergossi, Rino Tami. Opera completa, Mendrisio Academy Press, Mendrisio 2008, passim.
[2] Secondo la testimonianza di Tita Carloni raccolta nel documentario Il club degli architetti, di Wladimir Tchertkoff e Michele Fazioli, originariamente trasmesso nell’edizione di “Orsa maggiore” del 15 novembre 1983, https://www.rsi.ch/play/tv/dossier-alla-scoperta-dellarchitettura-in-ticino/video/il-club-degli-architetti?id=12854728 (pagina consultata il 20 aprile 2020).
[3] Su Peppo Brivio si veda Annalisa Viati Navone, Verso un’architettura concreta. Peppo Brivio, le prime opere, Edizioni Sottoscala-Fondazione Archivi Architetti Ticinesi, Bellinzona-Gentilino 2021.
[4] Cfr. Riccardo Bergossi, Rino Tami con Carlo Tami e Peppo Brivio, Cinema Corso, Case «La Piccionaia» e «il Cardo», in N. Navone (a cura di), Guida storico-critica all’architettura del XX secolo nel Cantone Ticino, vol. I, Archivio del Moderno, Balerna 2020, https://www.ticino4580.ch/mappe#/Rino-Tami-con-Carlo-Tami-e-Peppo-Brivio-Cinema-Corso-Case-La-Piccionaia-e-Il-Cardo.
[5] Connesso al termine dialettale «bindell», il «bindello» è la «stretta striscia che i cementisti, i modellisti e i pittori erano soliti rispettare in vicinanza degli spigoli, per non alterarli»; Tita Carloni, Trasformare gli edifici moderni: una pratica complessa, in Progetto Biblioteca. Spazio, storia e funzioni della Biblioteca cantonale di Lugano, Biblioteca cantonale di Lugano-Edizioni Le Ricerche, Lugano-Losone 2005, pp. 81-85.
[6] Mi riferisco alla polemica Perret-Le Corbusier magistralmente indagata da Bruno Reichlin, L’«intérieur» tradizionale insidiato dalla finestra a nastro. La Petite Maison a Corseaux, 1923-1924, in Id., Dalla «soluzione elegante» all’«edificio aperto». Scritti attorno ad alcune opere di Le Corbusier, a cura di Annalisa Viati Navone, Mendrisio Academy Press-Silvana Editoriale, Mendrisio-Cinisello Balsamo 2013, pp. 87-132 (con bibl. precedente).
[7] Roberto Gargiani, Razionalismo emozionale per l’identità democratica nazionale. 1945-1966. Eretici italiani dell’architettura razionalista, Skira, Milano 2021.
[8] Rino Tami, I sepolcri imbiancati dell’architettura, in Il 900 e il 900 da noi. Numero unico Gauno d’architettura, Mazzuconi, Lugano 1936, pp. 28-31.
[9] Cfr. ad esempio Rino Tami, Della verità in architettura, in Tita Carloni (a cura di), Rino Tami. 50 anni di architettura, Fondazione Arturo e Margherita Lang, Lugano 1984, pp. 167-174 (testo della lezione inaugurale tenuta al Politecnico federale di Zurigo). Ma si vedano anche Rino Tami, Problemi estetici dell’autostrada, “Rivista Tecnica della Svizzera Italiana”, a. LX, 31 dicembre 1969, n. 24, pp. 1607-1620 (trad. ted.: Die Beteiligung des Architekten bei Ingenieurbauten. Ästhetische Probleme beim Bau von Autobahnen, „Deutsche Bauzeitung“, a. CIV, 1970, n. 9, pp. 715-720; successivamente ripubblicato in Brücken-, Tunnel- und Strassenbau im Gebirge / Construction de ponts, tunnels et routes dans les massifs montagneux, Atti della giornata di studio (Lugano, 24-25 settembre 1982), Zurigo 1982, pp. 23-29 e Id., L’autostrada come opera d’arte, in T. Carloni (a cura di), Rino Tami…, cit., pp. 122-125.
[10] Si vedano, oltre allo Studio della Radio della Svizzera italiana, citato più avanti, in particolare il Palazzo delle Dogane (1958-1962) e la Casa Boni e Regazzoni (1959-1962) a Lugano (per i quali cfr. Riccardo Bergossi, Rino Tami con Francesco van Kuyk, Palazzo delle Dogane e Casa Boni e Regazzoni, in N. Navone (a cura di), Guida storico-critica…, cit., vol. I; le Case ad appartamenti Skory a Sorengo (1960-1966), la Casa Dufour Anstalt a Lugano (1961-1963) e la Casa Beretta a Locarno (1962-1965), per le quali cfr. K. Frampton, R. Bergossi, Rino Tami…, cit., pp. 388-393, 394-397 e 402-404.